Cosa ti regalo? Un racconto.

Di Knaves.

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    Testo per Merî:

    Le città Invisibili due, il ritorno.
    Le città danzanti.
    Meri è stata costruita su una coccinella. Poggiata su base piramidale, danza perpetuamente, retta dalla forza centrifuga, sul piccolo coleottero smarrito. Chi vi accede trova una città puntigliosamente persa nei riflessi delle sue stesse pozzanghere. Cupole, spilli, boccali e lenzuola, oggetti pieni e vuoti, opachi e trasparenti, a Meri tutto riflette qualcosa e il viandante vi si perde, in compagnia della città stessa. I suoi castelli sono mercatini dove gli abitanti si attardano discutendo di fragranze e fili dorati oppure di paglia, ma sempre con lo stesso tono ordinato e geometrico, matematico quasi, nel fiero e assoluto disordine. I meno distratti si sorprenderanno ben presto di non scorgervi campanili né lancette di alcun genere, che tra le poche leggi vigenti a Meri c’è quella che abolisce ogni sorta di orario. Perché è sempre l’ora giusta.
    E tutti i palazzi sono pastello e hanno forme diverse e dolci, come in una pasticceria o in una scatola di cioccolatini. Rigoli di parole s’incanalano nei vicoli grovigliosi, dove solo alcune forcine per capelli (di quelle meno paurose dei ricci) sanno dare indicazioni ai più accorti, e lì trovano terreno fertile e germogliano. Germogliano e fioriscono e sopra ogni pianta nasce una luce, che di notte Meri è visibile dal cielo e presa per costellazione dalle stelle stesse. Un bel fenomeno. A Meri tutti hanno gli occhi grandi, e possono ammirarlo. Passandovi rapidamente ci si sente rapiti ma anche estranei, smontati da ciò ch’ella innalza e getta, insieme ai problemi materiali, fuori dalle mura invisibili. Meri è una città ottimista e pura. E allora l’avventore si trova di colpo dinnanzi a druidi e fate e ancora elfi, folletti, donnole col monocolo e conigli magistrati, nonché magistrali, tempeste di strudel e cartoline di liquirizia, più leccabili pure dei francobolli stessi. E infinite altre meraviglie. Dunque, nei propri pensieri e sentimenti traforati, non resta che scorgere le ombre, per indovinare criminosamente l’ora (giusta?) e chiedersi se s’è fatto tardi, per le vie di Meri.
    Ma a Meri le ombre non sono mai indicative, tutto merito, o colpa, della coccinella galeotta, che, sempre, probabilmente ignara di tutto, si sposta dove meglio crede. E tutto cambia. Anzi, resta uguale.



    Testo per eles-chan:

    C’era una volta. E poi ce n’erano anche tante altre, di volte. Se stessimo a dirle tutte qui non fareste in tempo a saltare nel nostro gioco, cari amici, che il gufo avrebbe già cantato l’alba.
    E poi c’era e c’è ancora, da qualche parte, la Principessa EleH. Una Principessa boccolosa, a tratti, e lunga ed elegantissima davvero.
    Chiusa nel suo mantello elehgante, plickplickava puntettacco, nella Torre d’Avorio, con fare stelosissimo da fiore doverosamente diritto e fino. Andirivienendo, tracciava nella Stanza delle Meraviglie percorsi tondeggianti e millepassici. Ogni treperdue lanciava, attraverso le sue lenti antitalpa, uno sguardo che ai più sarebbe parso inallusivo e fosco, tanto vuoto e pure parecchio adirezionale. Invece, curvando il passo e inclinando impercettibilmente i boccoli, proprio nei pressi della fenditura a sud-est, tracciava un ponte con una Lucina autoproclamatasi tale, disposta, ahimè, giustinfondo alla Foresta Oscura. E questo ponte di sguardo, miei cari, ve lo dico io, era arcobalenante e gnomico, di quelli che conducono al pentolame cornucopico e glorifico e molto apoteotico.
    Il problemissimo si poneva nella Foresta Oscura, appunto, di nome e di fatto e anche di proposito, si mormora. Nido volgare di pinguissimi villani, dagli istinti ineluttabili e dall’integrità puzzelica, infami cognati di conati e deplorevoli cantori dell’etica vilipesa oppure astratta, ovvero pure peggio che vilipesa. Anche in una Favola.
    Di queste cose, la Principessa EleH non sapeva niente. Niente-niente dico, che non le capiva proprio e se invece le comprendeva, ne era rivoltata e affranta e pure assonnata fino alla svogliatezza più estrema. Quando le capitava di soffermare troppo il pensiero su siffatte leghe si chiudeva in una quaresima di antirealtà, stringendo fortissimamente il collo del suo elehgantissimo mantello. Immaginava nuvolosamente il rosso tra i mille colori e poi il verde e il blu e tuttinsieme gli altri, tranne il nero che restava fuori adiacciante e digrignoso. Perché, se fosse entrato il nero, ella avrebbe dormito sonni profondi e abissici e precipitanti, senza sveglia.
    Mi scuserete per questa descrizione improvvisata e d’occasione, ma se devo spennellare con parole umane un primo affresco, senza troppo dirvi del perché e del percome, questo era. Chi sono io? Sono il Ragazzo che ha Perso le Lingue e non sa più dire, ma che la Principessa ha votato. Ma la lucina chi era?
    Che ce lo spifferi leiH.

    I K.

    Edited by Merî - 9/7/2015, 19:02
     
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  2. Knaves1
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    User deleted


    Test.

    Edited by Knav3s - 31/10/2015, 23:56
     
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1 replies since 9/7/2015, 17:59   76 views
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